Trieste, così il “Magazzino 18” racconta l’esodo degli italiani d’Istria

Magazzino 18 Trieste
Le sedie accatastate alla stregua di una montagna dura da scalare, come emozioni sparse in ogni angolo del cuore. E ancora: libri perfettamente conservati, quaderni vergati da una grafia struggente e precisa, stoviglie riposte ordinatamente sugli scaffali, ricette mediche appoggiate su un tavolo.

Mobili ovunque, attrezzi agricoli pronti all’uso, valigie che aspettano di essere ritirate come in un deposito bagagli, numeri della “Settimana Enigmistica” impilati che sembrano freschi di tipografia. E poi foto. Tante foto. E la “sua” foto: quella di una bambina, i suoi occhi ti seguono e ti segnano. Non importa che ne conosciate il nome o l’età: sappiate, però, che è morta di freddo al campo profughi di Padriciano, Trieste. Anno 1956.

Quando varchi la soglia del Magazzino 18, nel Porto Vecchio di Trieste – in realtà le masserizie ora sono collocate nel Magazzino 26, dove è allestito il Museo della Civiltà Istriana, Fiumana e Dalmata, ma il marchio di fabbrica 18 resta indelebile – pensi di sapere ciò che ti aspetta, ma non è vero. Hai letto e sentito parlare dell’esodo giuliano-dalmata, ma alla fine scopri che ne sai poco o nulla e sei molto più vicino al nulla che al poco.

Certo, sai che si tratta – cito da Wikipedia – «dell’emigrazione forzata della maggioranza dei cittadini di nazionalità e lingua italiana dalla Venezia Giulia», quando le loro terre vengono consegnate alla Jugoslavia di Tito nel 1947. La metamorfosi da italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia a esuli si consuma in un amen. Tra foibe – ecco, quelle abbiamo almeno imparato a conoscerle un po’ meglio – esecuzioni, insulti a chi riparava in Italia da parte di chi la storia non poteva o fingeva di non conoscerla, e mancanza di comprensione in quel drammatico dopoguerra.

Quando la mia guida mi introduce in questo spazio – curato con amore e rimesso a posto dai volontari dell’Irci, Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata di Trieste – quell’infinità di oggetti ammassati da gente sradicata dalla propria casa ti riempie gli occhi e ti svuota il cuore. La metafora della “montagna di sedie” non è mia, ma di Simone Cristicchi, il cantante e attore teatrale romano autore, appunto, di “Magazzino 18”, il musical allestito per divulgare la tragedia di un popolo dimenticato per troppo tempo.

È l’istantanea iconica di quegli anni.

«Ci sono due altri aspetti di questa storia che vanno sottolineati: la vita da profughi e la perdita dell’identità», ci tiene a ricordare la mia guida, mentre i suoi occhi si fanno sempre più lucidi man mano che ci aggiriamo tra le masserizie. Perché lei la tragedia l’ha vissuta in prima persona e può raccontarla, dall’esilio al campo profughi di Trieste, tra gli stenti e il gelo, ha visto e sentito tutto, ha toccato con mano il dolore. E lo tocca ancora. Allora mi fermo e le chiedo se si senta più istriana o italiana, Mi fissa, immagino che quella domanda se la sia sentita rivolgere più e più volte. La risposta non ammette repliche: «Né l’una né l’altra. Diciamo italo-istriana». A proposito di identità…

Magazzino 18

È una storia di confine e qui entra in ballo il terzo aspetto che va messo a fuoco: Trieste. Il Magazzino 18 non poteva che trovare il suo alveo naturale nella città mitteleuropea per eccellenza: una cultura immensa che viene da lontano, con influenze italiane, austro-ungariche e slovene e il fascino ineguagliabile della piazza aperta più grande d’Europa, Piazza Unità d’Italia, affacciata direttamente sul mare. Trieste, però, non è solo questo. La sua bellezza mozzafiato – da San Giusto a Miramare, dal Molo Audace al Canal Grande, dai tanti musei allo spirito itinerante di Joyce e Svevo – è un tutt’uno con la sua passione e i suoi tormenti, figli di quella sottile lingua di terra che corre lungo il Carso, piantata come una bandiera esposta alla Bora tra l’Adriatico e la frontiera con la Slovenia.

Sì, frontiera, la vedi anche adesso che non esiste più. «Ma neppure prima – precisa la mia guida – papà andava e veniva tranquillamente». Una linea di continuità spezzata poco dopo e segnata dal sangue.

Il tricolore, tornato orgogliosamente a sventolare in Piazza Unità il 26 ottobre 1954 dopo 9 anni di amministrazione angloamericana, è già stato ammainato nelle terre dell’Istria a caro prezzo, aprendo la via a un esodo che coinvolge circa 350.000 persone. Padriciano e la Risiera di San Sabba – già lager e campo di sterminio, rimasta in piedi a perenne ricordo della follia nazista – sono le aree dove trova rifugio una parte dei profughi. Si tratta di una lunga parentesi di povertà, amarezza, difficoltà, ma anche di dignità, senso di appartenenza, orgoglio. Tanto orgoglio, che avrebbe meritato una maggior comprensione da una parte degli abitanti di Trieste, pure marchiata a fuoco da Prima e Seconda Guerra Mondiale e Medaglia d’oro al valor militare. Ed è vero che le ferite si rimarginano, ma le cicatrici restano e il dolore non scompare.

Già, ma voi vorrete sapere: perché tutte quelle masserizie non sono mai state ritirate dai legittimi proprietari? La mia guida allarga le braccia e prova a dare una spiegazione: «Molti di loro sono andati oltreoceano, chi in America, chi in Australia: probabilmente non valeva più la pena sobbarcarsi la fatica di recuperarle».

Quando viene l’ora di andare via, dai un ultimo sguardo all’interno e ascolti l’eco di quella tragedia, come il sussurro del mare quando accosti la conchiglia a un orecchio. Un passato che passato non è, che avvolge testa e cuore di chi l’ha vissuto e resta ben impresso in chi viene qui per osservare la storia da vicino. Perché esci dal Magazzino 18, ma non dall’esodo. Dall’esodo non esci mai.